L’itinerario è stato progettato dopo aver consultato i siti web di alcune agenzie di viaggio locali e aver letto i racconti di chi c’era stato prima di noi.
Nonostante un viaggio sia un qualcosa di strettamente personale, negli articoli pubblicati da altri turisti troviamo sempre qualche aneddoto o informazione interessante.
Succede anche a voi?
Al termine abbiamo tirato le somme e ci siamo affidati al tour operator locale Advantour per prenotare l’alloggio a Tashkent e acquistare i biglietti del volo dalla capitale a Urgench.
Il resto l’abbiamo organizzato in completa autonomia, come illustrato nell’articolo dedicato al nostro viaggio in Uzbekistan fai da te.
Tra impegni di lavoro inderogabili e difficoltà a far collimare le giornate di ferie, siamo riusciti a ritagliarci solo dieci giorni pieni più mezza giornata il giorno di arrivo.
Abbiamo quindi dovuto fare delle scelte ben precise.
A malincuore siamo stati costretti a rinunciare a un paio di destinazioni che avevano stuzzicato la nostra curiosità: l’escursione da Nukus al porto di Moynaq sul Lago d’Aral e l’esplorazione del deserto del Kizilkum.
Cosa trovate in questo articolo?
Alcune idee per pianificare un itinerario alla scoperta dell’Uzbekistan in 10 giorni, in base alla nostra esperienza personale.
Come tutti i racconti che pubblichiamo sul blog.
Indice
- Cosa vedere in Uzbekistan in 10 giorni
- Giornata di arrivo: volo Istanbul – Tashkent e inizio visita della città
- 1° giorno: Tashkent
- 2° giorno: volo Tashkent – Urgench e trasferimento a Khiva
- 3° giorno: Khiva
- 4° giorno: trasferimento Khiva – Bukhara
- 5° giorno: Bukhara
- 6° giorno: Bukhara
- 7° giorno: trasferimento Bukhara – Samarcanda
- 8° giorno: Samarcanda
- 9° giorno: Samarcanda ed escursione a Shakhrisabz
- 10° giorno: trasferimento Samarcanda – Tashkent
Cosa vedere in Uzbekistan in 10 giorni
Venezia: prima della partenza
Seduti sulle comode poltrone della sala imbarchi dell’aeroporto di Venezia, ripassiamo mentalmente la check list di viaggio: i documenti ed il visto ci sono, i biglietti e la fotocamera anche, le scarpe da trekking pure.
Siamo pronti per partire.
Davanti a noi sul mare piatto della laguna, piccole imbarcazioni a vela virano continuamente alla ricerca di qualche refolo di vento.
Nel 1271 un ragazzo veneziano di nome Marco Polo partì proprio da qui assieme al padre Niccolò e allo zio Matteo verso l’Oriente.
Adesso tocca a noi ripercorrere un breve tratto di quella incredibile avventura che diede vita al libro Il Milione.
Giornata di arrivo: volo Istanbul – Tashkent ed inizio visita alla città
Dopo poco più di tre ore di volo do un’occhiata al navigatore di bordo per localizzare la nostra posizione.
Abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle il Mar Caspio, stiamo volando nello spazio aereo turkmeno e abbiamo da poco doppiato la capitale Ashgabat e la città persiana di Mashhad.
Mi affaccio al finestrino e in lontananza vedo spuntare l’alba. Il fuso orario si è ingoiato velocemente la notte e noi purtroppo non siamo ancora riusciti a riposare.
Quando si arriva in un paese straniero il primo impatto è rappresentato dal disbrigo delle formalità d’ingresso. Le operazioni da effettuare sono sempre le stesse però le modalità possono variare.
Passiamo velocemente il controllo passaporti, ritiriamo il bagaglio, compiliamo la dichiarazione dei beni che importiamo e ci mettiamo in coda per il controllo doganale.
“A breve saremo fuori” pensiamo, invece il bello doveva ancora arrivare.
Davanti a noi abbiamo una manciata di passeggeri, sono tutti uzbeki e hanno i carrelli stracolmi di valigie, borse, zaini, pacchi ed imballaggi.
Tornano dalla Turchia, dall’India, dalla Corea del Sud e dalla Cina mi dicono, comprano merci a prezzi vantaggiosi e poi le rivendono sul mercato interno mettendo a segno buoni margini.
I controlli sono minuziosi, nel caso emergano dubbi o irregolarità il funzionario si apparta in un altro ufficio e si consulta con i suoi colleghi prima di riprendere la trafila.
Il problema è che i tempi di attesa si dilatano a dismisura e quindi passa oltre un’ora prima che arrivi il nostro turno.
“Tutto ok!” ci dice l’addetto al controllo dopo aver visionato i passaporti ed i bagagli, finalmente possiamo uscire dall’aeroporto ed iniziare a vivere la nostra vacanza.
Nel parcheggio dell’aeroporto ci sta attendendo l’autista del transfer privato che avevamo prenotato da casa.
Data la stanchezza accumulata in viaggio e l’orario di arrivo si è rivelata un’ottima idea.

National Food (Tashkent)
Prime impressioni su Tashkent.
La zona nuova della città, quella che si sviluppa ad est del canale Anhor, è sezionata da ampi viali alberati.
Notiamo diverse squadre di operai impegnati in opere di manutenzione: falciatura dell’erba nei parchi e nei giardini, pittura delle cordonate che delimitano gli spazi verdi, pulizia della canaletta di scolo dell’acqua piovana che scorre ai margini delle strade.
Alcuni, per ripararsi dalla calura, si coprono il capo con un fazzoletto bagnato.
I parchi vengono curati in maniera quasi maniacale, nonostante il gran caldo dei mesi estivi i prati sono verdi e le piante in fiore.
I platani che fiancheggiano le strade vengono pitturati alla base del tronco con una soluzione di acqua e calce spenta per proteggerli dai parassiti.
Centinaia di uccelli svolazzano da un albero all’altro; si tratta di kaptar, hanno più o meno la stessa grandezza di un merlo, anche loro hanno il becco giallo però il piumaggio è molto più chiaro.
Per le strade si muovono in maniera caotica le automobili. La segnaletica orizzontale è insufficiente e quindi negli incroci privi di semaforo ci si arrangia come si può.
Le vecchie Lada di fabbricazione sovietica stanno ormai lasciando spazio agli ultimi modelli di Daewoo e Chrysler.
Le due case automobilistiche infatti hanno aperto nuovi stabilimenti in Uzbekistan negli ultimi anni; non tutti i pezzi vengono prodotti qui mi dicono ma l’assemblaggio e la consegna del prodotto finito sì.
Ceniamo in uno dei locali più caratteristici ed animati della città, il National Food.
Giorno 1: Tashkent
Il modo migliore per farsi un’idea della realtà economica e sociale di un posto nuovo è quello di visitare un bazar.
Decidiamo di andare nel mercato agricolo più famoso di Tashkent, il bazar Chorzu, quello che i vecchi uzbeki considerano ancora il vero cuore della città.
Il mercato si sviluppa all’interno del complesso principale sovrastato da una cupola verde, nei padiglioni coperti che lo circondano e sui marciapiedi delle viuzze laterali.

Bazar Chorzu (Tashkent)
Veniamo catapultati all’improvviso in un mondo di colori, odori e rumori.
Qui si trova di tutto: bacinelle in plastica piene di spezie colorate, patate, bietole, cataste di angurie e meloni, banconi ricolmi di verdure crude sminuzzate e pronte per essere consumate.
Sacchi di farina e grano, prodotti caseari, uova, pile di pane, mazzette di piantine da orto, recipienti pieni di biscotti e caramelle, pezzi di carne adagiati sopra carriole in legno e protetti da fogli di carta da macelleria.
Riccardo dopo aver visto ogni bendidio si ferma nel reparto frutti di bosco e si disseta bevendo una spremuta di more preparata sul momento.
I venditori intanto continuano a rovesciare secchi d’acqua sul pavimento davanti alle bancarelle per tenere lontana la polvere dai prodotti esposti.
Il mercato dei venditori abusivi invece si svolge all’aperto nelle viuzze che dal bazar si dirigono verso la Madrasa di Kulkedash e il vecchio Chorsu hotel.
La merce viene esposta sui muretti che costeggiano la strada, i commercianti sono sempre sul chi va là e appena notano in lontananza la presenza di un poliziotto ritirano immediatamente i prodotti e li ripongono in un sacco di iuta.

Bazar Chorzu (Tashkent)
La città è presidiata a ogni angolo dalle forze dell’ordine in divisa verde scuro.
Notiamo poliziotti un po’ dappertutto: all’entrata dei sottopassaggi pedonali, nelle stazioni della metropolitana, lungo i viali, davanti agli edifici pubblici, nei pressi dei luoghi di culto, nei mercati e nei parchi.
Le impiegate della metropolitana sono tutte donne e dai loro tratti somatici intuiamo che sono di origine russa.
Tashkent è una città giovane, basta guardarsi un po’ in giro e balza immediatamente all’occhio l’età media delle persone.
La gran parte dei giovani vestono all’occidentale mentre le poche persone anziane che vediamo indossano abiti tradizionali.
Un discorso a parte va fatto per i soldi. Il taglio più grande è quello da 1.000 Som e quindi vi capiterà spesso di incontrare per strada persone che contano montagne di banconote.
Per noi che proveniamo da una società in cui la maggioranza delle transazioni avviene in modo elettronico è un’operazione superata, qui invece è una delle azioni più gettonate della giornata.
Alcuni esercenti si sono fatti furbi e si sono dotati di macchinette automatiche, ma la gente comune usa ancora le dita delle mani.
Rispetto a quando siamo stati noi, adesso nelle zone turistiche è più semplice trovare degli sportelli ATM dove prelevare valuta locale con le nostre carte di credito.
Anche alcuni esercenti si sono dotati di terminali POS, ma vi consigliamo di avere sempre del cash a disposizione perché spesso musei, strutture ricettive e ristoranti non accettano pagamenti elettronici.

Khast Imom (Tashkent)
È domenica pomeriggio, fuori fa molto caldo e le strade sono quasi deserte.
Scendiamo le scale, entriamo nella stazione della metro Amir Timur Hiyoboni e ci avviamo alla cassa per acquistare i gettoni. Quando ci troviamo davanti allo sportello ci accorgiamo che l’impiegata si è addormentata.
Gli avambracci distesi sul bancone a far da cuscino e la guancia destra appoggiata sul dorso delle mani.
Mi fa tenerezza, quasi quasi mi sento in colpa a svegliarla ma non posso fare altro. Dobbiamo andare a Gofur Gulom e poi da lì proseguire a piedi fino a Khast Imom.
Abbasso il capo e mi porto all’altezza dello sportello.
Provo a sussurrarle qualcosa ma lei non mi sente, provo allora a bussare delicatamente sulla mensola in legno, niente da fare, provo infine ad alzare leggermente il tono della voce e inviarle un melodico good afternoon.
Alza lentamente la testa e quando si accorge che la stiamo osservando raddrizza di scatto la schiena e si mette composta sulla sedia.
È imbarazzata ovviamente ma noi la togliamo subito dal disagio regalandole un sorriso di comprensione, che lei ricambia sollevata.
Le stazioni della metropolitana sono finemente decorate con marmi, mosaici e lampadari di cristallo.

Fedeli a Khast Imom (Tashkent)
Dopo una lunga camminata arriviamo in quello che è il centro religioso ufficiale della repubblica, Khast Imom.
Se avete in programma una visita alla città, questo è uno dei luoghi da inerire obbligatoriamente nella lista delle cose da vedere a Tashkent.
L’Asia Centrale entrò in contatto con il mondo islamico nel VII secolo d.C. quando queste terre furono invase dagli arabi.
I primi ad essere convertiti furono gli abitanti di Bukhara, successivamente quelli del khanato di Kokand situato nella valle di Fergana.
L’Islam fonda le sue radici più antiche in Asia Centrale proprio qui in Uzbekistan, tanto che Tashkent è stata fin dall’Ottocento la sede del Gran Muftì di tutto il Turkestan, il capo spirituale e la massima autorità della chiesa islamica.
Mentre osserviamo i pellicani districarsi tra le piante del giardino che fiancheggia la colossale Moschea del venerdì Hazroti Imom, da uno dei due minareti il muezzin chiama i fedeli alla preghiera.
Guardiamo l’orologio, mancano pochi minuti alle 18:00.
L’invito viene raccolto solo da pochi anziani fedeli, alcuni dei quali arrivano avvolti nei loro caffetani di seta e con lo zucchetto in testa.
Giorno 2: volo Tashkent – Urgench e trasferimento a Khiva
In una Tashkent ancora deserta raggiungiamo in una manciata di minuti l’aeroporto, dove ci attende il volo Uzbekistan Airways che ci catapulterà in poco più di un’ora e mezza a Urgench.
Come abbiamo potuto constatare in questi giorni, tutti gli edifici pubblici sono sottoposti ad una stretta sorveglianza e l’aerostazione non fa eccezione.
Il primo controllo passaporti infatti avviene già sul marciapiede all’esterno dell’edificio.
Voliamo con un bimotore turboelica di fabbricazione russa, un Ilyushin IL 114-100.
Il velivolo è datato ma il volo tutto sommato si svolge senza problemi. Il passeggero che sta seduto davanti a noi trasporta in una borsa di plastica pezzi di ricambio di un motore.
Ogni tanto buttiamo l’occhio fuori del finestrino e dopo aver sorvolato le acque azzurre del Lago Aidarkul, ci ritroviamo sopra il paesaggio desolante e misterioso del deserto del Kyzylkum.

Le mura antiche (Khiva)
Arrivati ad Urgench sbrighiamo in pochi minuti le procedure di sbarco.
Davanti al recinto dell’aeroporto intanto si è radunato un folto gruppo di taxisti in avida attesa del turista da spennare.
Prima di tuffarci nella prevedibile bagarre percorriamo a passo lento il lungo cortile cercando di escogitare un piano di difesa.
Non facciamo neppure in tempo a mettere il piede fuori dal cancello che veniamo investiti dalla classica domanda “are you going to Khiva?”.
Non volendo passare per gli ingenui di turno, tra noi ed i taxisti inizia una logorante guerra psicologica: loro sanno che noi abbiamo bisogno di loro per arrivare almeno in centro città, noi invece sappiamo bene che senza i nostri soldi non guadagnano la pagnotta.
Alla fine ci accordiamo per una cifra largamente inferiore a quella della domanda iniziale e così concludiamo la trattativa con reciproca soddisfazione.
Se volete evitare questa baraonda vi consigliamo di prenotare online un transfer dall’aeroporto di Urgench a Khiva.

Anziano in abiti tradizionali (Khiva)
Khiva dista circa 35 chilometri, sull’ampia strada incrociamo il filobus che fa la spola tra le due località.
Vediamo inoltre rivenditori di angurie e meloni, alcuni contadini trasportano i loro prodotti su carretti a due ruote trainati da un asinello.
Nell’immaginario collettivo dei secoli passati, Khiva ha rappresentato per le popolazioni che battevano queste lande remote storie di bande turkmene, violenze e schiavitù.
Per molti anni la città fortezza fu inespugnabile tanto che i russi riuscirono a violarla solo nel 1873, quando le truppe zariste arrivarono qui con un esercito di ben 13.000 uomini guidati dal generale Konstantin Kaufman.
Il khan Mohammed Rakhim II divenne allora un vassallo dello zar.
Il khanato perso il suo antico prestigio e nel 1920 i russi lo trasformarono nella Repubblica Popolare di Corasmia, assorbita qualche anno più tardi nella nascente Repubblica Socialista Sovietica dell’Uzbekistan.

Vecchie abitazioni (Khiva)
Khiva è un museo a cielo aperto.
La città vecchia, la Ichon-Qala, è racchiusa tra alte mura di cinta e si sviluppa in un dedalo di viuzze sterrate tra imponenti costruzioni e basse casette di fango.
Mentre Riccardo effettua la passeggiata lungo il tratto nord-occidentale delle mura e perlustra la città dall’alto, io ed Elisabetta ci addentriamo nelle stradine che si diramano dalla porta settentrionale Bogcha-Darvoza.
Tutti i bambini che incontriamo per strada ci regalano un sorriso e ci salutano con un hello, mentre i più piccoli riposano tra le braccia di mamme e nonne sedute sull’uscio di casa.
Nei minuscoli cortili non manca mai un tapchan con la base ricoperta di tappeti e piccole stalle dove trovano alloggio capi di ovini e pollame.
Khiva è particolarmente bella da fotografare nel tardo pomeriggio. Le tonalità dei colori sono molto più calde con la luce calante del tramonto.
Usciamo dalle mura e ci sediamo sotto la statua dello scienziato persiano Al-Khorezmi.
Sotto la sua direzione furono tradotte in arabo molte delle principali opere matematiche del periodo ellenistico, dell’antica Persia, di Babilonia e dell’India.
È l’autore del primo libro che tratta soluzioni sistematiche di equazioni lineari e di secondo grado e per questo motivo è considerato il padre dell’algebra, titolo che divide con Diofanto.
Sullo spiazzo antistante il monumento, un nugolo di bambini vocianti ha improvvisato una partita di calcio con un pallone sgonfio e con i pali delle porte contrassegnati da magliette accatastate una sopra l’altra.
Anche se ormai fa buio, Khiva è una fornace.
Il sole infatti ha picchiato forte tutto il giorno, la colonnina del mercurio ha sfiorato i 40°C e ora la pavimentazione riverbera il calore accumulato.
Giorno 3: Khiva
Una piccola perturbazione proveniente da ovest ha portato in dote una coltre di nubi stratiformi ed una brezza rinfrescante.
Stamattina vogliamo conoscere il tessuto sociale della città e quindi decidiamo di visitare la zona del bazar Dekhon.
All’esterno del complesso coperto i venditori espongono i prodotti agricoli sul ciglio della strada.
Per ripararli dal sole stendono dei teli sostenuti da un intreccio di spaghi legati ai pali della luce, tanto che per spostarsi da una bancarella all’altra è necessario abbassare continuamente il capo.
Furgoni e motorini sfrecciano per le strade in un concerto di clacson e alzando nuvole di polvere.
Davanti a un magazzino dei ragazzi con le facce rigate da gocce di sudore scaricano grossi sacchi di farina da un carretto.
Sulla porta d’ingresso di una macelleria sono esposti i pezzi di carne in vendita, sul pavimento è appoggiata la bilancia a piatti con tutta la serie dei pesi mentre dal retro della bottega si alza il classico rumore dell’affilatura dei coltelli.
L’uva è molto buona, sia quella rossa che quella bianca. Dalle griglie intanto arrivano invitanti profumi di spiedini di carne di montone.
Rientriamo nell’Ichon-Qala attraverso la lunga galleria a volte della porta orientale Polvon Darvoza. In passato era il luogo del mercato degli schiavi, oggi invece ospita le bancarelle di venditori di souvenir.
Prima di iniziare la visita dei siti storici della città ci rechiamo all’ufficio informazioni turistiche dove, dopo una breve trattativa, fissiamo i dettagli del trasferimento in taxi a Bukhara per l’indomani mattina.
Tenetene conto se vi chiedete come andare da Khiva a Bukhara.

Mausoleo Sayid Alauddin (Khiva)
L’ingresso principale della città vecchia è la porta occidentale Ota Darvoza, ricostruita negli anni Settanta dopo che quella originaria era andata distrutta nel 1920.
Iniziamo la visita dal Kuhna Ark, fortezza e residenza dei sovrani di Khiva, la Madrasa di Mohammed Rakhim Khan, il minareto dalle piastrelle color turchese Kalta Minor ed il piccolo Mausoleo di Sayid Alauddin.
Davanti alla porta d’ingresso c’è un polveroso tappeto verde dove i fedeli prima di entrare si tolgono le calzature.
Entrano nel mausoleo, si siedono sul pavimento davanti a un tavolino in legno, incrociano le gambe, depositano la loro offerta sull’altarino, chinano il capo e ascoltano la preghiera recitata da un anziano Imam.
La procedura è breve e nel giro di pochi minuti sono fuori felici e sorridenti.
Proseguiamo la visita con la grande Moschea Juma, al cui interno 218 colonne di legno lavorato e decorato sostengono il tetto.
Alcune colonne risalgono addirittura alla moschea originale del X secolo e molti visitatori provano ad individuarle pilotati dalle indicazioni delle guide.
Le moschee hanno il compito di attestare la grandezza di Dio e la presenza dell’Islam.
Nelle moschee non c’è un altare perché non si pratica il culto sacrificale.

Soffitto in legno, Palazzo Tosh Hovli (Khiva)
Dopo essersi concessi una pausa per gustare un po’ di frutta e sorseggiare del the verde distesi su un elegante tapchan nel giardino dell’hotel che ci ospita, continuiamo a scoprire i luoghi più interessanti della città.
Iniziamo dal palazzo Tosh Hovli il cui nome significa “Casa di Pietra”.
È decorato con bellissime piastrelle di ceramica colorate, sculture in pietra, legno ed alabastro (ganch).
Il palazzo fu fatto costruire da Allakuli Khan tra il 1832 ed il 1841 come residenza alternativa e più lussuosa al Kuhna Ark.
Proseguiamo con la Madrasa di Islom Hoja e successivamente terminiamo la giornata con la visita dell’incantevole Mausoleo di Pahlavon Mahmud.
Secondo noi è uno dei luoghi più belli di Khiva, con il suo bellissimo cortile e le splendide decorazioni in piastrelle bianche e blu.

Minareto Islom Hoja (Khiva)
Giorno 4: trasferimento Khiva – Bukhara
Pochi giorni prima di partire avevo letto il commento di un utente su un thread del forum Thorn Tree della Lonely Planet, che in inglese diceva così:
“We found the road in a shocking state, with a brand new one next to it totally blocked off, the result of a standoff between the Germans and Koreans”.
“Uomo avvisato mezzo salvato” recitava un vecchio adagio e quindi non ci facciamo trovare impreparati a quello a cui stiamo andando incontro.
Lasciamo Khiva di buon mattino.
Appena fuori città incrociamo gruppetti di donne che si recano al lavoro nei campi. Sul ciglio della strada venditori abusivi di carburante espongono taniche e bottiglie.
I cani randagi attraversano pericolosamente la carreggiata.
Attraversando i piccoli villaggi che incontriamo lungo il tragitto ci saltano subito all’occhio le persone che stanno ancora dormendo all’aperto sui tapchan, mentre i rivenditori di bevande stanno posizionando la merce nei frigoriferi situati all’esterno delle botteghe.
Percorriamo i primi 70 chilometri in circa 1 ora e 20 minuti su una strada dissestata ma praticabile.
Il ponte sul fiume Amu Darya, il leggendario Oxus situato vicino al confine con il Turkmenistan, è la porta d’accesso al deserto del Kyzylkum, che significa Sabbie Rosse.
Qui ha inizio un tratto di strada in condizioni drammatiche: buche, dossi, avvallamenti e crepe.
Riccardo ha registrato un breve filmato con il cellulare condiviso su YouTube

Moschea Maghoki Attar (Bukhara)
Si procede così in mezzo ad un polverone tra continui sobbalzi, frenate al limite e improvvisi cambi di traiettoria per circa tre ore.
Per fortuna il giovane ragazzo che ci fa d’autista conosce a memoria i passaggi più complicati e questo rende sicuramente più agevole il tragitto.
Il colmo è rappresentato dal fatto che di fianco alla pista che stiamo percorrendo scorre per lunghi tratti la base in calcestruzzo di quella che sarà la nuova strada.
Al momento però i lavori sono bloccati causa problemi burocratici con la ditta coreana appaltatrice dei lavori, e non si hanno notizie certe sui tempi di riapertura dei cantieri.
Per lunghi tratti i nostri unici compagni di viaggio sono i pali della linea elettrica.
Di rado incrociamo altri veicoli: alcuni camion Kamaz che trasportano container o mattoni, qualche taxi collettivo, una piccola carovana di motociclisti italiani e un paio di pullman.
Intorno a noi un paesaggio tipicamente lunare formato da arbusti di basso fusto, sabbia color nocciola mista a pietrisco.
Ogni tanto intravediamo qualche minuscolo villaggio formato da casette in mattoni o fango che si mimetizzano perfettamente con l’ambiente che le circonda.
Dopo 7 lunghe ore e 20 minuti di viaggio arriviamo finalmente a destinazione.
L’ultimo tratto del tragitto l’abbiamo consumato su una strada che possiamo definire decente per gli standard a cui questo paese ci ha ormai abituati.
L’approssimarsi della città è scandito dall’attraversamento di villaggi via via sempre più grandi, mentre il deserto ha lasciato definitivamente spazio a campi di cotone, granoturco e vigneti.
Che dire. Una giornata come questa arricchisce sicuramente il bagaglio di esperienze di chi viaggia, anche se a essere sinceri ne avremmo fatto volentieri a meno.
L’apertura della nuova strada è avvenuta l’anno successivo.
Arriviamo nel piccolo hotel che ci ospita, sbrighiamo velocemente le procedure di accettazione, apriamo la porta della nostra stanza e rimaniamo estasiati da quello che vediamo.
La camera è stata ribattezzata con il nome di Varahsha.
Si trattava di una famosa residenza reale del medioevo situata all’interno dell’oasi di Bukhara ed era conosciuta in tutto il mondo islamico per i suoi splendidi murali.
La grandezza e lo splendore dell’antica Varahsha si rispecchia ora in questa stanza, che contiene la copia fedele di un murale scoperto dagli archeologi mentre scavavano nella sala delle incoronazioni.
L’originale invece si trova nel Museo delle Arti di Bukhara.
Il luogo dove sorge l’hotel era la casa di un mercante ebreo costruita alla fine del XVIII secolo, situata vicino alla Sinagoga e ciò che rimane del vecchio quartiere ebraico.

La nostra camera (Amelia Boutique Hotel)
A prima vista Bukhara sembra bellissima.
Nonostante sia stata sottoposta negli ultimi anni ad invasive opere di restauro, è riuscita a conservare il fascino ed il carisma che aveva catturato l’anima di Marco Polo.
Il cuore pulsante della città vecchia è la piazza Lyabi-Hauz, costruita intorno ad una vasca nel 1620.
La struttura è circondata da enormi piante di gelso, sul lato orientale della piazza sorge la Madrasa di Nadir Divambegi, il lato settentrionale è occupato da due chaikhane mentre sul lato occidentale sorge la Khanaka di Nadir Divambegi.
Le khanake erano edifici adibiti alla preghiera nei quali venivano alloggiati i dervisci itineranti.
Darwish in persiano significa Cercatore di Porte, facevano parte di una confraternita islamica affine al Sufismo.
Vivevano in povertà avendo scelto come via di salvezza un cammino ascetico privo di vizi e dei beni della terra, attraverso il quale cercavano la via di ingresso al mondo celeste dopo aver superato il mondo materiale.
Di fronte alla madrasa, confusa tra gli alberi, si erge la statua di Hoja Nasruddin, il “folle saggio” che compare nei racconti sufi di tutto il mondo.
Il sufismo rappresenta infatti la scienza della conoscenza diretta di Dio attraverso la ricerca mistica.

Lyabi-Hauz (Bukhara)
Prima di sera andiamo a visitare il minareto Char Minar, che in lingua tagika significa “Quattro Minareti”.
È situato tra un dedalo di vicoli in terra battuta a poche centinaia di metri dal nostro hotel. La costruzione è circondata da alberi di melograno e alcune piante di vite che producono grossi grappoli di uva rossa.
“Cosa c’entra la lingua tagika?” direte voi. C’entra, c’entra, eccome se c’entra.
Qui a Bukhara infatti, come del resto a Samarcanda e nelle altre regioni dell’Uzbekistan meridionale, si parla il tagiko.
Anche i tratti somatici delle persone sono simili a quelli dei persiani–tagiki, mentre nel nord del paese la popolazione mostra chiare origini mongole e tartare.

Minareto Char Minar (Bukhara)
Giorno 5: Bukhara
Ci sono dei particolari momenti durante la giornata che meritano di essere vissuti fino in fondo.
Per noi uno di questi è rappresentato dalla colazione.
Il fresco della mattina ci invoglia a consumarla all’esterno della sala ristorante, nel piccolo cortile su cui si affacciano anche alcune stanze dell’hotel e la cucina.
Il menù prevede: frutta fresca, marmellata di fichi, ruote di pane, formaggi, salumi, riso pilaf servito con panna acida, tortini di sfoglia ripieni di carne e verdure, yogurt, biscotti, crepes, caffè, the verde e nero, succhi di frutta.
Bukhara è famosa per i suoi panificatori artigianali.
Oltre ai tipi più comuni di pane, non e patyr, realizzati con pasta frolla e grasso di montone, confezionano altre varietà rare o quasi totalmente dimenticate.

Sala da pranzo (Amelia Boutique Hotel Bukhara)
La Moschea Kalon è bellissima, è un luogo che emana pace e serenità ed è una delle cose più interessanti da vedere a Bukhara.
Al centro del cortile interno c’è un grande albero di gelso.
Dalle sale di studio escono di tanto in tanto dei ragazzi, si posizionano di fronte al Mihrab e recitano la loro preghiera prima di rinchiudersi nuovamente al riparo da occhi indiscreti.
Nello spiazzo davanti alla moschea sorgono sia il Minareto Kalon che la Madrasa di Mir-i-Arab.
Quando fu costruito nel 1127 dal re Arslan Khan, il minareto era probabilmente l’edificio più alto dell’Asia Centrale con i suoi 47 metri di altezza.
La leggenda vuole che arrivato ai suoi piedi, Gengis Khan alzò la testa per guardarne la cima e così facendo gli cadde il cappello. Non aveva mai visto qualcosa di così imponente e dette ordine ai suoi uomini di risparmiarlo.

Moschea Kalon (Bukhara)
È costruito con mattoni cotti e cementati da una specie di colla fatta di latte di cammello e albume d’uovo.
Il Grande, Kalon in tagiko significa “Grande”, era visibile anche da grandi distanze e per le antiche carovane che percorrevano la Via della Seta rappresentava un punto di riferimento prezioso.
Sia la moschea che la Madrasa Mir-i-Arab hanno delle maestose cupole ricoperte da ammalianti piastrelle color turchese.
Si dice che al giorno d’oggi sia difficilissimo trovare le tegole di quel colore originario, in quanto in passato per ottenere quel tipo di celeste gli artigiani aggiungevano del sangue umano alla maiolica prima di cuocerla.
Esistono altre leggende sul Minareto Kalon, conosciuto anche come Torre della Morte, in quanto nel medioevo diversi criminali furono gettati a terra dalla cima e giustiziati.
Una di queste leggende narra che nell’antichità la città era governata da un re molto crudele di nome Shakh. Era un cattivo governante e trascorreva il suo tempo tra vizi e piaceri.
Shakh aveva una moglie che in gran segreto aiutava la povera gente a migliorare la situazione della regione.
Un giorno qualcuno rivelò il segreto al re e questi si arrabbiò a tal punto che ordinò di gettare la moglie dalla Torre della Morte.
La donna però era molto intelligente. Alla vigilia dell’esecuzione chiese di poter esaudire il suo ultimo desiderio e Shakh acconsentì.

Minareto Kalon (Bukhara)
Il giorno dell’esecuzione volle indossare uno sopra l’altro tutti i suoi abiti e le sue gonne.
Centinaia di persone intanto si erano radunate alla base del minareto per dare l’ultimo saluto all’amata sovrana. La donna salì in piedi sul bordo della torre e saltò giù nel vuoto.
La gente chiuse gli occhi dalla paura ma nello stesso istante tra la folla si levò un grido: “Miracolo, la regina non è morta!”.
Quando si gettò dalla torre infatti le ampie gonne le fecero da paracadute e le consentirono un atterraggio morbido.
Il re allora rese omaggio al coraggio della donna, la perdonò e cancellò la sentenza emessa nei suoi confronti.

Bazar dei tappeti (Bukhara)
Sull’altro lato della strada sorgono il bazar dei gioiellieri e quello dei venditori di tappeti.
Il primo è affollatissimo, donne di mezza età vestite con abiti tradizionali dai colori sgargianti e il fazzoletto in testa espongono la loro merce su ripiani in legno appoggiati a muretti in mattoni.
Fanno buoni affari con le donne locali che amano particolarmente truccarsi e abbellirsi.
Un vecchietto dalla barba bianca intanto si affaccia tra le bancarelle per vendere delle uova fresche mentre dai piccoli ristorantini della zona fuoriesce il profumo di frittelle ripiene di carne e cipolla.
I tappeti invece vengono esposti all’esterno di botteghe e laboratori.
Ce ne sono di tutte le dimensioni, alcuni appesi alle pareti del complesso altri arrotolati su sé stessi.
Sono decorati sia con motivi astratti moderni sia con forme geometriche e floreali tradizionali, si dividono in tappeti tessuti (Kilim e Sumak) e tappeti di lana a pelo lungo annodati.
Il nodo persiano si differenzia da quello turco perché il filo di lana o di seta viene stretto alternativamente vicino alla catena di filatura.
Per le piazze ed i marciapiedi stazionano i rivenditori di Mors.
Si tratta di un composto di acqua e succo di frutta, viene venduto in bicchieri di vetro da un quarto o da mezzo litro e si consuma sul posto.
Da ieri sera Riccardo non sta bene, soffre infatti della classica infiammazione intestinale che colpisce i turisti quando si recano nei paesi più a rischio.
A tal proposito ringraziamo di cuore tutto lo staff dell’Amelia Boutique Hotel per la disponibilità e sensibilità dimostrata nel prendersi cura della sua salute.
Per fortuna si è ripreso con un giorno di completo riposo, noi comunque ci eravamo premuniti con una assicurazione sanitaria privata, acquistata prima di partire.
Solitamente, per questo tipo di servizio, ci affidiamo alla compagnia Heymondo.
Prenotando dal link presente in questo articolo i lettori del nostro blog possono beneficiare di uno sconto che solitamente è del 10%.
Giorno 6: Bukhara
L’apice del suo splendore Bukhara lo raggiunse attorno al IX secolo, quando era la capitale di un impero che comprendeva l’Uzbekistan, il Tagikistan e parte degli attuali Iran ed Afghanistan.
La città vantava 197 moschee e 167 madrase che ospitavano 20.000 studenti.
L’islamismo in pratica dominava la vita di tutti i giorni.
La città cadde in mano all’Armata Rossa nel 1922, ma la resistenza contro i bolscevichi durò per un’intera generazione.
I comunisti non vollero raderla al suolo come fecero in passato i mongoli ed i persiani, lasciarono intatte le mura, le 11 porte e le 81 torri di guardia.
Fecero però in modo che la gente vivesse in miseria chiudendo quello che era il bazar più grande e più importante dell’Asia Centrale.
Cambiarono l’uso delle moschee e delle madrase, coprirono i versetti del corano sui muri, la fecero morire piano piano senza distruggerla come era nelle loro intenzioni.
Ci riuscirono.
Anche se i bolscevichi le anestetizzarono l’anima, negli ultimi anni Bukhara sta riconquistando il suo ruolo di città nobile.
Un vecchio adagio tagiko dice infatti che Samarcanda è la bellezza della terra, Bukhara invece è la bellezza dello spirito.

Bazar del pane (Bukhara)
Fin dai tempi degli shaybanidi, una tribù di origine mongola del tempo dell’Orda d’Oro, la zona a nord-ovest della piazza Lyabi-Hauz era un labirinto di vicoli commerciali.
Mercati e piccole botteghe, i cui tetti erano sormontati da cupole progettate per convogliare all’interno l’aria fresca.
Di quei mercati coperti al giorno d’oggi ne sono rimasti tre: il Taki-Sarrafon, il bazar dei cambiavalute, Taki Telpak Furushon, il bazar dei cappellai e Taki Zargaron, il bazar dei gioiellieri.
Anche se in realtà hanno cambiato la loro funzione originale e si sono trasformati in mercatini di souvenir per turisti.
Vicino alle bancarelle, seduti sui tappeti, vediamo dei giovani che giocano a backgammon, che qui chiamano shesh besh.
Nei negozi di alimentari si vendono diversi prodotti sfusi come era costume una volta anche da noi: biscotti, dolciumi, riso, pasta, zucchero, farina, sigarette, frutta secca e spezie.
Oggi avevamo in programma la visita alla fortezza reale dell’Ark.
Purtroppo però l’ingresso era chiuso causa lavori di manutenzione e rinforzo alle mura esterne, crollate sotto le abbondanti piogge dei mesi scorsi.
L’unico sito accessibile nella zona dell’Ark è il complesso della prigione (Zindon), oggi trasformata in museo.
Si possono visitare la camera della tortura ed il “pozzo degli scarafaggi”, dove erano segregati i prigionieri, tra cui anche alcuni italiani come Modesto Gavazzi e Giovanni Orlandi da Parma.
Proprio mentre usciamo dalle prigioni si scatena sulla città una breve ma violenta tempesta di sabbia.

Museo della prigione (Bukhara)
Continuiamo la visita alla città con le Madrase di Abdulla Khan e Modari Khan situate dietro il teatro Ayni Uzbek.
Successivamente andiamo alla Madrasa di Abdul Aziz Khan e quella di Ulughbek, decorata con piastrelle azzurre
La moschea più antica dell’Asia Centrale, la Maghoki Attar, ha invece una bellissima facciata originale del IX secolo.
Al calar del sole Lyabi-Hauz si popola di gente del posto e di turisti.
Vengono aperti i getti d’acqua della fontana, i ragazzini si tuffano nella vasca e fanno il bagno, ci si siede sui muretti che circondano la piazza a chiacchierare ed ascoltare i motivi musicali che escono dalle chaikhane.
I tavoli dei ristoranti intanto si stanno affollando di commensali.
Man mano che diventa buio vengono accesi i fari colorati che trasformano il luogo in un tripudio di giochi d’acqua e colori.

Khanaka Nadir Divambegi (Bukhara)
Giorno 7: trasferimento Bukhara – Samarcanda
La stazione dei treni di Bukhara si trova a Kagan, base militare costruita dai russi e conosciuta con l’appellativo di “città rossa”.
Dista poco più di dieci chilometri dal centro città.
Viaggiamo con il treno Sharq dotato, nella classe intermedia, di comodi sedili in pelle come quelli degli aerei.
Fino a Navoi attraversiamo tratti di deserto alternati a campi verdi coltivati a cotone, granoturco e frutteti.
Sparsi qua e là piccole greggi di pecore karakul e alcuni capi di bovini dal manto rosso.
Arriviamo alla stazione di Samarcanda dopo poco più di tre ore di viaggio

Donne uzbeke (Samarcanda)
Samarcanda, che significa città ricca, fu fondata circa 2.500 anni fa.
Alessandro Magno conosciuto da queste parti come Iskander Khan, la conquistò nel 329 a.C. e ci rimase un anno.
Verso la fine del VII secolo arrivarono qui gli arabi e con loro l’Islam, eliminando le vecchie religioni zoroastriana e buddista.
Nel 1220 arrivarono i mongoli e Gengis Khan la distrusse.
Nella seconda metà del XIV secolo arrivò con le sue orde nomadi Tamerlano, che tra il 1382 ed il 1405, anno in cui morì, mise assieme un impero che andava dall’Europa all’India, ricostruì la città e la fece capitale del suo regno.
I suoi successori furono dapprima un figlio e poi il nipote prediletto Ulughbek, che regnò per ben quaranta anni prima di essere spodestato da una congiura di fanatici musulmani che lo decapitarono.

Cupola interna Gur-e-Amir (Samarcanda)
Se state pensando a cosa vedere a Samarcanda, vi consigliamo di buttare uno sguardo alla piantina della città.
La possiamo suddividere in tre grandi zone: ad ovest la città nuova costruita dai russi, a nord-est l’antica Samarcanda con i suoi monumenti carichi di gloria, a sud-est i quartieri più popolari.
Negli ultimi anni gli urbanisti, seguendo gli ordini del Ministero del Turismo diretto da Gulnara Karimova, figlia del presidente della Repubblica Islom Karimov, hanno ridisegnato la città in modo da nascondere alla vista dei turisti le zone più degradate.
Orribili mura sono state costruite intorno al Mausoleo Gur-e-Amir e al Registan.
Il piccolo Antica B&B in cui alloggiamo si trova proprio nella città vecchia di fianco al mausoleo.
Possiamo quindi dire con un pizzico d’orgoglio di aver fatto parte per alcuni giorni della comunità “aldilà del muro”.

Mausoleo Gur-e-Amir (Samarcanda)
Iniziamo a visitare la città.
Secondo noi il Mausoleo Gur-e-Amir con la sua grande cupola azzurra scanalata è uno dei luoghi più belli della città.
Significa tomba dell’emiro e ha le pareti di onice. Con la luce a tre-quarti del tardo pomeriggio il complesso dà il meglio di sé a livello fotografico, quando risaltano perfettamente gli azzurri ed i gialli.
Come in altri mausolei musulmani le lapidi hanno una funzione puramente simbolica, le tombe vere e proprie infatti si trovano in un’altra stanza.
Al centro della sala vi è la lapide di Tamerlano in nefrite nera, poi ce ne sono altre cinque tra cui quelle di due dei suoi figli, due maestri religiosi e il nipote Ulughbek.
Un aneddoto dice che nel 1941 un gruppo di studiosi sovietici guidati da Mikhail Gerasimov, decise di aprire le tombe di Tamerlano e Ulughbek per studiarne i corpi.
La gente era contraria alla cosa, si diceva che il giorno in cui Tamerlano fosse stato disturbato nel suo sonno una grande sciagura si sarebbe abbattuta sul paese.
Gerasimov e soci aprirono le tombe la notte del 21 giugno del 1941, la mattina seguente arrivò la notizia che Hitler aveva invaso l’URSS.
Per i sovietici era così iniziata la seconda guerra mondiale.

Registan (Samarcanda)
Il Registan, che significa “il posto della sabbia”, è uno dei luoghi più famosi di tutta l’Asia Centrale e conserva tuttora il suo fascino e la sua leggendaria epopea.
Quando ci affacciamo sulla scalinata che scende sulla piazza da Registan Kochasi rimaniamo per un attimo senza fiato.
I tre maestosi edifici che la compongono, Ulughbek, Sher Dor e Tilla-Kari, sono le madrase più antiche sopravvissute fino ai giorni nostri.
Tutte quelle risalenti a epoche precedenti infatti furono distrutte da quel simpaticone di Gengis Khan.
Sui gradoni sono state installate delle piccole tribune in legno e tubi innocenti.
La sera la gente del posto ha l’abitudine di radunarsi qui per scambiare quattro chiacchiere, avendo a disposizione come sfondo questa meravigliosa scenografia.
Io e Riccardo facciamo lo stesso, a un certo punto alziamo gli occhi verso il cielo e scorgiamo sopra di noi la costellazione dell’Orsa Minore.
Giorno 8: Samarcanda
“Samarcanda è città grandissima e nobile dove sono bellissimi giardini e terreni pianeggianti pieni di tutti i frutti che l’uomo può desiderare.
Gli abitanti sono cristiani e saraceni. Obbediscono al nipote del Gran Kan non molto amico dello zio e spesso ribelle a lui; anzi, fra loro è di continuo inimicizia e guerra”
(da Il Milione, Marco Polo).
La frutta c’è ancora. Tanta. Esposta sulle bancarelle del bazar Siob oppure sugli alberi nei giardini delle case: uva, albicocche, zucche e fichi.
E dove c’è zucchero ci sono centinaia di insetti, tra cui mosche e api.
I quartieri più popolari si sviluppano in un dedalo di viuzze in terra battuta, spesso disconnesse e ricolme di resti di materiali da costruzione.
Le casette hanno un piccolo cortile interno racchiuso da un alto muro di cinta, circondato da un porticato in legno decorato (aiwan), adornato con piante, alberi da frutto e gli immancabili tapchan per la siesta.
Le acque grigie di uso domestico vengono convogliate in una stretta canaletta che scorre a cielo aperto lungo il percorso delle stradine.
Sopra la testa dei passanti, in barba alle più elementari norme di sicurezza, c’è un reticolo di fili e cavi destinato alle varie utenze.

Bazar Siob (Samarcanda)
La tigre, che qui chiamano anche leone o leopardo, è il simbolo della città.
La leggenda dice che durante i lavori di costruzione dell’antica Samarcanda un leopardo scese dai monti Zerafshan, si aggirò per le strade della città, approvò quello che stavano edificando e ritornò sulle sue montagne.
Da allora gli abitanti di Samarcanda vengono chiamati “leopardi”.
Le tigri si trovano un po’ dappertutto: sulla facciata della Madrasa Sher Dor al Registan, in un monumento di Tashkent kochasi, nei negozi di giocattoli per bambini sotto forma di peluche.

Madrasa Sher Dor (Samarcanda)
Shah-i-Zinda, che significa Re Vivente, è uno dei luoghi più amati dagli abitanti di Samarcanda.
È un complesso funerario in cui riposano diversi parenti di Tamerlano e le tombe sono finemente ornate da piastrelle color azzurro e turchese.
Il sito è meta di pellegrinaggi ed è frequentato da numerosi fedeli. Anche se è un luogo di “morte”, Shah-i-Zinda è un posto magico e pieno di vita.
Sembra un paradosso ma è così.
Uno degli ultimi edifici che compongono il complesso è la moschea del Re Vivente.
Lì era già sepolto un santo musulmano, per alcuni si trattava di Kasim Ibn Abbas, per altri era Akhmed Zaaman, detto il Messia, cugino di primo grado di Maometto.
Chiunque fosse, la leggenda vuole che il santo, venuto qui a combattere gli infedeli, fosse catturato e decapitato.
Ma lui non si crucciò, raccattò la testa che gli avevano appena mozzato, se la mise sotto il braccio ed andò a vivere in fondo al pozzo che stava nei pressi.
Il pozzo c’è ancora, la gente dice che il Re Vivente è sempre laggiù che dorme e aspetta l’occasione per uscire e riprendere la battaglia contro gli infedeli.
Essendo diventato un posto sacro, tre viaggi qui equivalgono a uno a La Mecca.
Anche Gengis Khan fu impressionato dalla storia del Re Vivente tanto che mandò due suoi soldati in fondo al pozzo a vedere se c’era effettivamente un corpo che dormiva. I due tornarono in superficie accecati.

Mausoleo Shah-i-Zinda (Samarcanda)
Dietro al mausoleo c’è uno dei cimiteri di Samarcanda, le lapidi sono di marmo scuro e le fotografie dei defunti sono di dimensioni molto più grandi rispetto a quelle che siamo abituati a vedere alle nostre latitudini.
Nei paraggi c’è il piccolo laboratorio di un marmista, qui il lavoro non manca mai purtroppo, questo è poco ma sicuro.
Tra il bazar Siob e Shah-i-Zinda c’è la bellissima Moschea di Hazrat-Hizr, ricostruita nel 1854 sulle ceneri della precedente rasa al suolo da Gengis Khan e da pochi anni magnificamente restaurata.
Merita sicuramente una visita.

Moschea Hazrat Hizr (Samarcanda)
Uno dei monumenti più raffinati dell’Asia Centrale è la Moschea di Bibi-Khanym.
Fu ultimata poco prima della morte di Tamerlano ed era tra le moschee più grandi del mondo islamico. Per la sua costruzione furono adottate delle tecniche innovative per l’epoca.
Entriamo nel cortile e notiamo subito un enorme leggio in pietra per il Corano.
Qui era poggiato un tempo un Corano speciale, il più vecchio del mondo, tutto rilegato in oro e del peso di circa 300 Kg.
Era il Corano che Osman, il genero del Profeta, stava leggendo quando fu assassinato. Le gocce di sangue di Osman, rimaste sulle pagine, avevano reso quella copia particolarmente sacra.
L’aveva portata a Samarcanda un santo musulmano e per secoli quel leggio era stato fonte di miracoli.
Le donne che non rimanevano incinte per esempio, se passavano tre volte a digiuno sotto i suoi archi di pietra rimanevano gravide di un figlio maschio.
Quando i russi arrivarono in città, quel Corano fu parte del loro bottino di guerra.
Lo portarono dapprima a San Pietroburgo.
Poi dopo il mancato golpe del 1991 lo restituirono ai musulmani dell’Asia Centrale e ora si trova a Tashkent, nel complesso religioso di Khast Imom.
Prima di entrare nella moschea veniamo avvicinati da un gruppo di donne dai denti d’oro e avvolte in splendidi abiti tradizionali.
Ci chiedono se possiamo posare con loro in alcune foto ricordo. Lo facciamo volentieri e poi ci fermiamo a chiacchierare con loro per una decina di minuti.

Pellegrina in visita ai luoghi sacri di Samarcanda
Da decenni le guide locali raccontano ai visitatori sempre la stessa storia, anche se con sfumature diverse.
Non fa eccezione quella che un ragazzo sta illustrando in una specie di litania a una comitiva di italiani.
A noi invece è piaciuta molto la versione raccontata a Tiziano Terzani da Shoista, la cosiddetta “Figlia del Re”:
Tamerlano voleva fare di Samarcanda la città più bella del mondo.
Prima di partire per una nuova spedizione militare, ordinò che durante la sua assenza venisse costruito un grande complesso religioso.
Doveva contenere due moschee, una madrasa ed un ostello per i pellegrini.
Il tutto doveva essere fatto in onore della sua moglie preferita, una delle nove che aveva, una principessa mongola, appunto Bibi-Khanym.
L’architetto incaricato della costruzione era un persiano della città di Mashhad.
A quel tempo lo erano la maggior parte dei maestri e degli artigiani che lavoravano a Samarcanda.
L’architetto si innamorò perdutamente di Bibi-Khanym e minacciò di non finire in tempo la costruzione se lei non gli avesse almeno permesso di darle un bacio su una guancia.
Bibi-Khanym era assolutamente contraria a questa intimità e per toglierselo dai piedi offrì all’architetto spasimante le donne più belle della città.
Ma quello insisteva. “Forse che un bicchiere di vino è come uno d’acqua?” le mandava a dire.
Preoccupata che Tamerlano tornasse e la costruzione a cui tanto teneva non fosse finita a causa dei ricatti dell’architetto, Bibi-Khanym finì per cedere alle sue avance e si lasciò baciare. Terribile errore!
Quel bacio fu così focoso che sulla guancia di Bibi-Khanym rimase una grande bruciatura.
Così conciata non poteva certo presentarsi a Tamerlano! Bibi-Khanym ebbe allora un’idea brillante: si coprì la faccia con un velo e ordinò a tutte le donne della città di fare lo stesso.
Tornato a Samarcanda, Tamerlano non volle sentire storie, tolse il velo alla moglie, si fece raccontare la verità e andò su tutte le furie.
Ordinò che una parte della moschea, appena finita, fosse trasformata in una tomba e ci fece seppellire viva la moglie infedele.
Poi mandò i suoi uomini a tagliare la testa del fedifrago.
L’architetto però era andato a nascondersi in cima al minareto che aveva appena terminato di costruire.
Proprio mentre i soldati lo stavano per acchiappare, mise le ali e volò via, per tornare a casa sua nella città di Mashhad.

Moschea di Bibi Khanym (Samarcanda)
La città è molto animata. La sera la gente si ritrova per strada o nei grandi parchi.
I ragazzi giocano a calcio mentre i più piccoli si divertono con i palloncini colorati. Gli uomini giocano a carte seduti sulle panchine.
Agli angoli delle strade si posizionano venditrici ambulanti con i loro banchetti.
Tra la merce non mancano mai pane, pistacchi, semi di girasole e sigarette sfuse.
Per la prima volta da quando siamo arrivati in Uzbekistan abbiamo visto alcune coppie di innamorati scambiarsi gesti affettuosi e tenersi per mano.
Giorno 9: Samarcanda, escursione a Shakhrisabz
Shakhrisabz, che in tagiko significa Città Verde, è una piccola cittadina situata 90 chilometri a sud di Samarcanda.
È la città natale di Tamerlano e ha un passato di storia e grandezza.
Alle ore 9:30 il taxista che abbiamo assoldato ci attende come da accordi fuori il portone d’ingresso del nostro B&B.
Manco a dirlo la strada che collega Samarcanda a Shakhrisabz è in condizioni pessime.
Asfalto deteriorato, rappezzi di bitume, buche, dossi, anche oggi si balla la rumba insomma.
Durante il tragitto incontriamo due posti di blocco.
Il primo situato prima della salita che conduce ai 1738 metri del passo Takhtakaracha (Amankutan) e il secondo all’ingresso nella provincia di Kashkadarya.
Man mano che ci si avvicina ai monti Zerafshan il paesaggio diventa arido.
Vi regnano bassi arbusti e strane formazioni rocciose che ci ricordano lontanamente i marbles del deserto australiano.
Quando la strada inizia a salire verso la cima del passo, costeggiamo per alcuni chilometri un piccolo corso d’acqua e d’incanto la natura rifiorisce.
Bambini a dorso d’asino si spostano da un villaggio all’altro mentre mandrie di bovini pascolano pericolosamente sul ciglio della strada.

Paesaggio dell’Uzbekistan meridionale
Shakhrisabz si sviluppa lungo la via Ipak Yoli che la seziona da nord a sud.
Alle due estremità si trovano i siti di maggior interesse.
A nord ci sono i resti dell’immenso palazzo Ak-Saray, il palazzo Bianco, residenza estiva di Tamerlano e la statua dell’antico condottiero timuride.
A sud invece ci sono la Moschea di Kok-Gumbaz e Dorut Tilyovat, il complesso dell’Imam Khazrati.
Al suo interno si trova la cripta di Tamerlano, anche se il suo corpo è tumulato a Samarcanda come abbiamo visto.
In mezzo c’è l’animato bazar.

Venditore di shashlik (Shakhrisabz)
I colori e gli odori sono quelli classici dei mercati dell’Asia Centrale.
Ci intrufoliamo dentro a curiosare un po’ e oggi ci soffermiamo sulle bancarelle di falegnami, calzolai, venditrici di pollame e anatre, arrotini e macellai.
Dato che al peggio non c’è mai fine, pochi chilometri prima di rientrare a Samarcanda troviamo la strada sbarrata.
Dei grandi massi infatti sono fuoriusciti dal cassone di un camioncino che li trasportava.
L’autista del nostro taxi si deve improvvisare sciatore e con abili traiettorie da slalomista riesce a venirne fuori alla grande, senza arrecare danni al veicolo.
Giorno 10: trasferimento Samarcanda – Tashkent
Salutato Akhmed, factotum del piccolo negozio con l’insegna “post office” situato di fianco al Mausoleo Gur-e-Amir, ci rechiamo in stazione.
Anche qui, come del resto a Bukhara, le operazioni di accesso sono particolarmente laboriose.
Primo controllo passaporti all’esterno del recinto, secondo controllo passaporti, controllo bagagli e biglietti all’interno.
Il treno Sharq parte alle ore 11:20.
Fuori città i campi sono coltivati a cotone, granoturco e frutteti. Nei piccoli villaggi che attraversiamo i bambini si radunano davanti ai passaggi a livello.
Sembra una specie di rito quotidiano e salutano con la mano il passaggio del convoglio. Tutta la linea ferroviaria è delimitata ai lati dal filo spinato.
Dopo la sosta nella località di Jizzach il paesaggio cambia radicalmente, grandi distese di orzo color giallo paglierino prendono il posto dei campi verdi.
Al tempo dello zar i russi ribattezzarono queste lande riarse con il nome di “steppa della fame”. Arriviamo a Tashkent in poco meno di quattro ore.

Dom Forum (Tashkent)
Nella capitale non c’è posto migliore di Amir Timur Maydoni che renda l’idea di cos’è stato l’Uzbekistan negli ultimi decenni del secolo scorso, e di quello che si vuol far credere che sia o che sarà in futuro.
Dietro la statua di Tamerlano infatti sorgono due grandi edifici, uno di fianco all’altro.
Il primo, sulla sinistra, è l’austero hotel Uzbekistan, costruito in era sovietica seguendo i canoni dell’architettura di regime.
L’altro, sulla destra, è il surreale Dom Forum. Con la sua struttura pacchiana rappresenta per il regime uno degli assi nella manica da offrire in pasto ai visitatori stranieri.
Approfittiamo delle ultime ore di luce per visitare il mercatino dell’antiquariato situato tra Amir Timur Maydoni e Mustaqillik Maydoni, sul viale pedonale chiamato Broadway.

Tramonto su Amir Timur Maydoni (Tashkent)
Al termine della visita rientriamo verso l’hotel.
Passeggiando per Musakhanov Street giriamo un’ultima volta lo sguardo verso la Tashkent che ci è più famigliare e vediamo scomparire il sole dietro la statua di Tamerlano.
E con la visione di questo romantico tramonto cala definitivamente il sipario anche sul nostro viaggio in Uzbekistan di 10 giorni.
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